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Archive for 12 febbraio 2012

Ci penso da qualche giorno, a questa faccenda del posto fisso che non c’è più e a tutto quello che, più o meno strumentalmente, è stato detto e scritto sul tema, e dopo l’articolo di Mannheimer di oggi sul Corriere vorrei condividere un paio di riflessioni, anche se non credo che  piaceranno a tutti.

Siamo una generazione di precari? Forse. Sicuramente le generazioni future lo saranno di più, ma forse lo percepiranno di meno come un problema, se saremo capaci di guardare avanti e creare una rete di nuove tutele e garanzie.

Io credo che potremmo definirci dei precari dell’aspettativa e dell’aspirazione.

La generazione dei nostri genitori ha vissuto una realtà sociale diversissima dalla nostra. Frequentare l’università, almeno fino a tutti gli anni ’70, non era la normalità, era ancora una sorta di privilegio, cui moltissimi non avevano accesso. Il lavoro fisso non era una prerogativa, era una necessità e una norma, e infatti all’epoca chi non ce lo aveva e preferiva vivere un’esistenza precaria era ancora considerato un hippy, o un pazzo, ben che gli andasse un artista. Quanti dei nostri genitori hanno dovuto rinunciare alle proprie aspirazioni, al desiderio di studiare, e adattarsi a fare un lavoro che non gli piaceva, ma farlo lo stesso? (non devo andare tanto lontano per trovare degli esempi, mi basta pensare a mio padre, e a quanto dev’essergli costato).

La nostra generazione è stata invece la generazione delle opportunità. Studiare è diventato “normale”, abbiamo quasi tutti frequentato l’università, abbiamo potuto andare all’estero a imparare le lingue straniere, per esempio, abbiamo avuto gli Erasmus, siamo stati la generazione dei fuori sede, con tutti i contro ma anche tutti i pro che questo ha significato (per inciso: pur lavorando non ho mai potuto permettermi nè di andare all’estero, nè di vivere fuori sede, se non “abusivamente” ospite di amici) . Certo, facendo dei sacrifici, chi più chi meno, tante volte facendo lavoretti poco qualificati per pagarci le spese, ma spesso costringendo a questi sacrifici, ancora una volta, i nostri genitori. E abbiamo potuto seguire le nostre aspirazioni, frequentando a volte facoltà quasi improbabili, perchè era un nostro DIRITTO. E abbiamo percepito come un diritto anche la scelta successiva di quale lavoro fare. Solo che oggi ci troviamo di fronte a un mercato del lavoro meno ricettivo di quello di una volta, che ci richiede maggiore specializzazione, maggiore flessibilità, e allo stesso tempo ci offre meno garanzie. Però per noi, forse perchè siamo comunque cresciuti con il mito del posto fisso, questo adesso è inaccettabile. Abbiamo approfittato, ripeto, anche facendo dei sacrifici, di tutte le opportunità, ma non siamo in grado di accettare i limiti e i vincoli.

Io non credo che ci stiano facendo un dispetto, credo davvero che il posto fisso come mito debba morire, dopo essere già morto come realtà, e credo che dobbiamo accettarne le conseguenze. Che non significa, naturalmente, subire un precariato a vita, significa secondo me combattere perchè questa nuova situazione garantisca dignità e tutele. Allora facciamo delle battaglie culturali e politiche sulla nuova realtà: invece di difendere solo l’articolo 18, cerchiamo di fare in modo che la riforma del lavoro e del welfare garantisca a tutti la possibilità di accesso ai servizi, facciamo in modo che quando chiediamo un prestito in banca non ci chiedano se siamo assunti a tempo indeterminato, facciamo una battaglia per la tutela della maternità anche nei contratti “alternativi”, facciamo in modo che le politiche sociali garantiscano la maggiore stabilità possibile nella flessibilità.

Io non credo che siamo una generazione di mammoni, mi rendo ben conto che è difficile avere una vita normale senza uno stipendio normale, e so bene quanto sia faticoso vivere da soli e arrivare alla fine del mese decorosamente, e quanto sia pressochè impossibile risparmiare. E vedo quanto è difficile entrare nel mondo del lavoro, e quanto sia ancora più difficile per molti che hanno 50 anni, e un’aspettativa di vita lavorativa di ancora una ventina, esserne espulsi, e non per colpa dell’articolo 18… Vedo però anche che il precariato a volte è una specie di scelta, che si puntano i piedi e si dice: io voglio fare QUEL lavoro, e fino a quando non potrò farlo meglio il call center da precario che un lavoro stabile che non mi piace. E, davvero, lo dico con il massimo rispetto per i moltissimi che sono precari loro malgrado, e magari fanno tre lavori per sbarcare il lunario, o che per cercare possibilità di fare un lavoro migliore mollano tutto e vanno all’estero.

La situazione non è facile, e vorrei che fosse davvero chiaro che non ce l’ho coi precari, nè con chi ha la “fortuna” di avere un posto fisso, non ne faccio una questione personale. Ce l’ho con la politica, certa politica in particolare, perchè mi pare che se invece di battaglie di retroguardia si conducessero battaglie “contemporanee”, forse si potrebbe trovare la quadra tra precariato e posto fisso, garantendo davvero una presenza flessibile nel mondo lavorativo senza togliere certezze e possibilità.

Alcuni strumenti ci sono, li sperimentano nel mondo. Paesi con welfare meno avanzati del nostro garantiscono un miglior accesso al mercato del lavoro, e offrono maggiori garanzie nei periodi di passaggio da un lavoro a un altro. Ci sono progetti europei di certificazione delle competenze per garantire maggiore flessibilità anche nella riqualificazione formativa. Non credo sia tutto perduto. Ma non possiamo stare a guardare, lamentandoci, e neppure continuare a usare gli slogan di 20 anni fa.

Facciamo una battaglia sui diritti, invece che contro le persone; facciamo un ragionamento prospettico invece che chiuderci a guardare il nostro orticello. Siamo tutti nella stessa barca: o il modello tiene per tutti, o non tiene per nessuno, e se il modello non tiene, il “posto fisso” non sarà più nemmeno una garanzia per chi ce l’ha.

Possiamo impegnarci a fare in modo che tenga. La politica dovrebbe servire soprattutto a questo. Anzi, questo è proprio uno dei motivi per cui, nonostante il trionfo dell’antipolitica, oggi più che mai di buona politica abbiamo bisogno.

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